Il Villaggio dei Dannati (film)

Il Villaggio dei Dannati – 1960 (recensione di Davide Mana)

Nel 1957, la MGM sospese a tempo indeterminato le riprese di un flm basato sul romanzo di John Wyndham “The Midwich Cuckoos”, che avrebbe dovuto essere interpretato da Ronald Colman.
I vertici della casa produttrice americana temevano che uno degli elementi centrali della storia – una versione particolarmente malevola dell’Immacolata concezione – avrebbe potuto causare problemi alla pellicola.
Ronald Colman morì nel 1958, complicando ulteriormente la facenda.
Poi, nel 1960…

Una prima, superficiale osservazione, ci potrebbe portare a schedare Village of the Damned, pellicola inglese del 1960 diretta dal tedesco Wolf Rilla, come un prodotto dei suoi tempi.
La paura dell’invasione, figlia della Guerra Fredda, l’orrore per il nemico che si nasconde fra noi, che ci assimila e ci fagocita, potrebbero far costruire immediatamente un parallelo con quell’altro colosso della cinematografia in bianco e nero, quell’Invasione degli Ultracorpi girato da Don Siegel nel 1956.
Ma non è così semplice.

L’invasione immaginata da Wyndham, sceneggiata e diretta da Rilla, è più subdola, più moralmente ambigua, di quella che Siegel trae dal romanzo di Finney.

La trama è nota.
Dopo un misterioso evento che causa la perdita di conoscenza in tutti gli abitanti del villaggio di Midwich, tutte le femmine fertili del villaggio (umane o animali) risultano essere in stato interessante.
Dopo una gravidanza anomala e ultra-accelerata, dieci donne danno alla luce altrettanti bambini, tutti inquietantemente simili fra loro, che in breve tempo mostrano non solo di avere tempi di sviluppo accelerati (almeno quattro volte rispetto ai normali bambini umani), non solo di possedere caratteri fisici non umani, ma anche di avere ampi poteri extrasensoriali.
Mentre situazioni simili si scoprono in altre località del globo, toccherà al professor Zellaby, egli stesso “padre” di uno dei ragazzini, cercare di comprendere il mistero e – se possibile – trovare una soluzione.

In Village of the Damned, quindi, l’attacco alieno ci colpisce a livello non solo biologico e sociale, ma morale ed affettivo.
Non si tratta più di rimpiazzare gli abitanti con loro cloni privi di emozioni, come nel film di Siegel, ma di insinuare nella collettività dei “figli” capaci di giocare proprio sulle emozioni, manipolando spietatamente gli adulti, instaurando una dittatura di fatto.

Per questo, se la reazione degli umani appare più efficace nel film di Rilla che in quello di Siegel, e l’invasione viene contenuta, è anche vero che il sapore della vittoria è amarissimo.
Gli australiani e gli inuit uccidono i bambini in fasce, senza troppe domande. I russi tentano di educarli, forse di usarli in maniera abbastanza cinica, solo per scoprire che l’unica soluzione è l’impiego delle armi atomiche per cauterizzare il rischio.
E la soluzione di Zellaby, più casereccia di quella sovietica, rimane venata dell’orrore che tutte le culture umane provano verso l’aggressione fisica ai bambini.

Il film, prodotto con mezzi limitati e giocato soprattutto sulla regia e sulle interpretazioni, conserva anche oggi il suo impatto.
Dall’inizio quieto, quasi indistinguibile dalle scene di apertura di un poliziesco all’inglese, alla parte centrale durante la quale l’analisi scientifica (portata avanti con mezzi “d’epoca” ma non meno efficace), alla crescente paranoia, fino allo scatenarsi dell’orrore, il meccanismo è perfettamente a punto.
Rilla dimostra di saper giocare molto bene su dettagli appena accennati, ed ottiene un prodotto che è superiore alla somma delle sue parti.

In questo è coadiuvato da un ottimo George Sanders, volto “per bene” dell’Inghilterra della prima metà del ’900; Sanders è a suo agio nei panni del professor Zellaby, uomo non più giovane con una bella moglie (Barbara Shelley, che diventerà un volto storico della Hammer), e “benedetto” dall’arrivo insperato di un figlio, ed al contempo uomo chiave sul campo per chiarire il mistero; un ritratto straordinariamente umano di scienziato – lontanissimo dagli orridi cliché che negli ultimi vent’anni hanno infestato il cinema di fantascienza.

Facile, infine, nel 1960, vedere nei piccoli mostri biondi un oscuro ricordo di deliri ariani da poco soppressi. E tutto, nella loro caratterizzazione – dallo stare sempre in gruppo, come una mente alveare, alla assoluta mancanza di sorriso, all’assenza di anima, ci lascia immaginare che se di invasione aliena si tratta, allora gli alieni sono profondamente, assolutamente nazisti.
L’unica parvenza di sorriso, in effetti, compare solo nella versione per il mercato britannico, ed increspa le labbra di David, il “figlio” di Zellaby, subito dopo aver causato la morte di uno degli abitanti del villaggio.
Sono nazisti, e sadici.
E sono figli nostri.

Villaggio dei dannati – 1995 (recensione di Gianluca Santini)

Nel 1995, a trentacinque anni di distanza dall’originale, esce nelle sale cinematografiche il remake de “Il villaggio dei dannati”. A dirigerlo è uno dei nomi più importanti del cinema fantascientifico e horror, John Carpenter. Pur con tutto il bene che voglio al Maestro, e pur non avendo visto l’originale, si nota come la qualità di questo film sia, per dirla in termini umani, imbarazzante. Non a caso era stato pure nominato ai Razzie Awards come peggior remake/sequel dell’annata 1995. Non ha vinto quell’ambitissimo premio, ma già solo la nomination dà da pensare.

Carpenter si ritrova in mano una storia già pronta ed è reduce da una serie di film che si sono rivelati dei veri e propri insuccessi commerciali. “Villaggio dei dannati” non interromperà la catena, purtroppo. Ma tutto ciò non può essere una giustificazione. Carpenter ci ha abituato a film memorabili, a una concezione dell’horror  e del fantastico del tutto personale, e con i remake ci ha saputo fare, basta pensare a quell’indiscusso capolavoro del 1982, “La Cosa”. Con questo film, invece, l’alchimia tra storia già sfruttata, reinterpretazione che fa quasi dimenticare che si tratti di un remake e poetica carpenteriana non riesce.

Dietro la macchina da presa c’è il Maestro e si vede. E lo si vede anche davanti, in un piccolo cameo nelle scene iniziali, ma nella storia non lo si percepisce. Il suo modo di narrare non arriva a destinazione, forse non è nemmeno mai partito. Si sente un po’ di Carpenter nello score musicale, curata assieme a Dave Davies: una tipologia di colonna sonora che è ormai un marchio di fabbrica per il regista/compositore. La musica che parte quando sono presenti i bambini e quando sono intenti a utilizzare i loro poteri, è alienante e ossessiva, forse l’unico vero guizzo che richiama alle emozioni di disturbo che dovrebbe suscitare la storia.

Tutto il resto è come un compitino fatto a casa: si regge in piedi, ma è privo d’anima, come quegli stessi bambini. Se la prima parte, quella del blackout, ha una qualche minima traccia di atmosfera, tutto si perde col procedere della pellicola. Dal momento che le emozioni sono la grossa differenza tra i bambini alieni e l’uomo, lo spettatore stesso non riesce a provare empatia per i personaggi. Si assiste a una sequenza di morti che anziché suscitare paura o empatia per la sorte tragica del personaggio, risultano grottesche, a tratti ridicole. Su tutte, quella dell’ubriacone che lavora nella scuola, o anche il massacro reciproco tra poliziotti e militari, nella parte finale. Senza coinvolgimento emotivo con gli umani, tutto si riduce a una presa visione di quello che succede, ma senza viverlo davvero. E troppi personaggi, presentati e subito dopo uccisi, non aiutano a far stabilire un contatto da parte dello spettatore. Se questo aspetto potrebbe far gioire i fan delle scene violente gratuite, anche loro rimarranno delusi, dal momento che Carpenter decide di non mostrare, a parte qualche piccolo dettaglio a metà pellicola.

Insomma, un remake freddo e portato avanti senza una reale voglia di sorprendere o spaventare. In tutto questo vengono persi anche i temi insiti nella storia, quelli della scienza e della fede, ma anche quello della violenza e crudeltà proprie della vita sociale dell’uomo. Vengono accennati, ma poi cadono nel vuoto, tanto nei dialoghi quanto nelle riflessioni dello spettatore. “Villaggio dei dannati” del ’95 è un film evitabile e, per chi non conosce Carpenter, una pellicola da non scegliere come primo lavoro da guardare del Maestro. Ci sono titoli molto più degni nella sua carriera.

Due ultime annotazioni. “Villaggio dei Dannati” è anche tragicamente noto per essere l’ultimo film interpretato da Christopher Reeve prima del famoso incidente a cavallo. Inoltre, nel cast è presente Mark Hamill, nome conosciutissimo nel cinema di fantascienza per la sua interpretazione di Luke Skywalker nella saga di Guerre Stellari: qui interpreta il ruolo del parroco del villaggio.

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