Starhunter: Braid

Ospitiamo una recensione di questo platform di Andrea Viscusi, “Piscu” in Rete, che ci guida nei meandri di un gioco davvero non banale.

I’m sorry, but the Princess is in another castle.”

Questa frase è sicuramente nota a tutti quanto hanno mai giocato al classico Super Mario, e quindi a chiunque abbia mai avuto un rapporto anche fugace con i videogames. E questa stessa citazione viene utilizzata anche in Braid, che di Mario riprende la struttura fondamentale del platform, oltre a vari altri omaggi che chiariscono in modo evidente il debito di questo gioco del 2008 al suo precursore di trent’anni prima.

Ma procediamo con ordine, perché Braid è molto più di un Super Mario aggiornato. Innanzitutto, il giocoè stato interamente sviluppato da Jonathan Blow, programmatore indipendente che lavora nell’industria dei videogiochi da anni, ma ha voluto uscirne proprio per sviluppare un prodotto che seguisse solo le sue idee. Dopo alcuni anni di lavoro, il gioco è uscito inizialmente come scaricabile per X-Box, e in seguito anche per Playstation 3, PC e Mac. Il successo è stato subito notevole, in parte per il considerevole hype creatosi intorno al gioco, e in parte per l’effettiva originalità e profondità del gameplay, che fanno di Braid un’esperienza completa in tutti i sensi.

Come già detto, la struttura di base del gioco è quella del platform: il giocatore può muovere il suo personaggio (Tim, un omino con un bel completino e cravatta rossa) in un mondo in 2D, procedendo da sinistra verso destra, saltando, arrampicandosi, ed evitando i nemici, fino a raggiungere l’estremità opposta del livello. Ma c’è una caratteristica essenziale che differenzia questo gioco da tutti gli altri del genere: non ci sono “vite” e non c’è modo di “morire”. In Braid, quando si viene colpiti da un nemico, si fa un salto troppo corto o si commette un qualsiasi errore, possiamo tornare indietro nel tempo, muovendoci fino al momento in cui abbiamo sbagliato, e agire di nuovo. Non c’è alcun limite a questa facoltà, né per quanto riguarda l’estensione del “rewind” (si può in pratica arretrare fino all’inizio del livello) né per il numero di rewind concessi (virtualmente infiniti). Il gioco è diviso in 6 “mondi” (proprio come nella tradizione inaugurata da Super Mario), ognuno con ambientazione e caratteristiche diverse, ai quali si accede dalle stanze della casa di Tim, che costituisce il livello-base dal quale il gioco inizia. Tuttavia, definire Braid come un gioco di piattaforme con la possibilità di riavvolgere il tempo sarebbe estremamente riduttivo. Infatti, se la struttura è questa, l’obiettivo del gioco è più simile al puzzle-game: ogni livello infatti include letteralmente alcuni pezzi dei cinque puzzle che Tim deve collezionare per poter ricostruire la sua storia. Così, la difficoltà del gioco non sta tanto nel raggiungere la fine del livello, quanto nell’ottenere tutti i pezzi, ognuno dei quali richiede un’ingegnosa interpretazione delle meccaniche di gioco, dal salto all’interazione coi nemici, fino al rewind stesso. Ma questo non è tutto, perché ogni mondo presenta una variabile in più rispetto a quelle di partenza, sempre legata alla possibilità di manipolare il tempo in modi differenti. Si trovano così oggetti “immuni” al rewind, livelli in cui il tempo scorre parallelamente al movimento di Tim stesso, proiezioni di Tim che ripercorrono le sue azioni, anelli che rallentano il fluire del tempo. Il nucleo di ogni enigma è spesso quello di superare una porta protetta da una chiave, salvare un “nemico” che sarà utile in un’altra sezione del livello, trovare il punto giusto in cui trovarsi al momento giusto. Questi elementi si combinano per creare sfide sempre nuove, e pezzi che per essere raggiunti richiedono un notevole (ma non impossibile) sforzo di immaginazione da parte del giocatore. Braid è in grado quindi di riproporre i temi classici del platform in una forma accattivante e coinvolgente. La manipolazione del tempo, nei diversi modi in cui viene realizzata, infonde una dimensione fantascientifica al gioco, e apre la strada a diverse chiavi di interpretazione della storia stessa.

Un’altra componente essenziale di Braid, che contribuisce a farne un’opera curata sotto tutti i punti di vista, sono la grafica e la colonna sonora. Dopo i prototipi iniziali, lo sviluppo grafico è stato affidato a David Hellman, che ha realizzato tanto l’ambientazione quanto i personaggi e le animazioni. Il risultato è di un impatto sorprendente per un gioco del genere, con gli sfondi che ricordano dei ritratti ad acquerello, i colori vivaci e vitali, che introducono a un mondo che appare come un paesaggio incantato. Con il procedere del gioco tuttavia i toni iniziano a farsi più cupi, e negli ultimi mondi lo stesso stile riesce a produrre ambientazioni piuttosto inquietanti, dissonanti, che assumono sempre più i tratti di un incubo. Anche il design dei personaggi del gioco ha un suo peso: Tim con la sua giacca, gli avversari principali che assomigliano a pallette di pelo con le scarpe, gli assurdi coniglietti che inseguono Tim e sfoderano i denti miagolando… tutti dettagli che sulle prime stupiscono, e che in seguito assumono un significato particolare. Per quanto riguarda i citati riferimenti a Super Mario, il gioco ne è pieno: dalle piante-piranha che escono fuori dai tubi, al messaggio che Tim riceve alla fine di ogni mondo (“…the Princess is in another castle”), fino al livello in cui è riprodotta la stessa struttura a scale del classico Donkey Kong. L’omaggio è quindi evidente, e lo si può gustare ogni volta che si presenta. La colonna sonora invece è costituita di diversi pezzi strumentali, la maggior parte dei quali composti dalla violoncellista Jami Sieber. Anch’essi sono stati scelti con cura e assumono un loro ruolo nel fornire un’interpretazione del gioco, soprattutto negli ultimi livelli. Inoltre, la musica è soggetta alla stesse dinamiche di distorsione temporale del mondo in cui si muove Tim: procede al contrario durante il rewind, rallenta in prossimità dell’anello, si sdoppia quando viene generata la copia-ombra, e così via. Grafica e musica sono elementi apparentemente superficiali, ma che, quando si considera il gioco nel suo complesso, colpiscono per il loro potere di creare un legame emotivo con il giocatore.

Tutto questo per quanto riguarda il gameplay in senso stretto. Ma c’è anche una storia dietro Braid, che si rivela meno banale di come può sembrare all’inizio. All’ingresso di ogni stanza, Tim passa infatti in una specie di “limbo” dove sono presenti le porte per accedere ai diversi livelli, e in cui alcuni libri illustrano la storia e il tema del mondo. Così inizia il mondo 2 (non è un errore: il primo è il numero 2): “Tim è alla ricerca della Principessa, rapita da un mostro orribile e malvagio. Questo è successo perché Tim ha commesso un errore.” Da qui deriva la tematica del rewind, che appunto consente di tornare indietro sui propri passi correggere gli errori. Dice ancora l’introduzione a questo mondo, intitolato Tempo e perdono: “Il nostro mondo, basato su rapporti di causa e d effetto, ci ha insegnato a essere avari di perdono, perché perdonare ci espone al rischio soffrire. Ma se abbiamo imparato dai nostri errori, se ci hanno fatti diventare migliori, non dovremmo essere premiati per questo, piuttosto che puniti?”. Nei mondi successivi, ulteriori brani concedono degli sprazzi del rapporto tra Tim e la sua Principessa, e lasciano intuire che le cose non siano lineari come appaiono in un primo tempo: probabilmente, il “mostro orribile” che ha rapito la Principessa è ben diverso dal Bowser che aveva rapito Peach.

Il mondo 3 è Tempo e mistero, in cui compaiono i primi oggetti immuni al rewind operato da Tim; Tempo e spazio è un intero mondo che si muove di pari passo con Tim, scorrendo avanti nel tempo quando cammina verso destra, e tornando indietro quando lui fa lo stesso; in Tempo e decisione, Tim può proiettare un doppelganger che ripete le sue azioni, mentre lui si dedica ad altri compiti; nel mondo 6, Esitazione, Tim ha un anello che, quando viene posato a terra, proietta un’aura di rallentamento sempre più intenso man mano che ci si avvicina al nucleo. Alla fine di ogni mondo, Tim raggiunge un castello, e qui viene accolto da un simpatico dinosauro di pezza che gli annuncia, appunto, che la Principessa è in un altro castello, e il suo viaggio deve proseguire. Procedendo nel gioco, percorrendo mondi via via più tetri, i dinosauri sembrano sempre più confusi dalla presenza di Tim e dalla sua ricerca della Principessa. Solo una volta acquisiti tutti i pezzi dei cinque puzzle si potrà accedere infine al mondo 1 (che non ha nome), in cui il tempo scorre costantemente all’indietro, e qui raggiungere il livello finale del gioco, dove finalmente Tim troverà la Principessa e il mostro che l’ha rapita… ma la battaglia finale sarà tutt’altro che prevedibile.

Una volta superato quest’ultimo ostacolo, si accede all’Epilogo, dove una serie di libri narrano la fine (ma lo è davvero?) della storia. Se già durante il viaggio dal mondo 2 al 6 le introduzioni avevano gettato alcuni dubbi sulla storia di Tim, dopo aver superato l’ultimo livello (che si intitola a sua volta Braid, ovvero “treccia”: la treccia della Principessa) e letto il lungo epilogo, si capisce che c’è qualcosa di più oscuro, e più profondo, nella ricerca della Principessa. Quella di Tim, si scopre, o almeno si arriva a sospettare, è una vera ossessione; la Principessa stessa forse non è una donna in carne e ossa, ma un simbolo, l’obiettivo finale a cui lui ha dedicato tutte le sue forze ma che continua a sfuggirgli. Alcune interpretazioni vedono in alcune citazioni inserite nell’epilogo dei riferimenti all’invenzione della bomba atomica, e la possibilità che Tim, coinvolto nella progettazione del supremo strumento di morte, stia cercando di tornare indietro per cancellare il suo senso di colpa. Non è facile trovare un significato univoco e coerente in ciò che accade in Braid, ma d’altra parte lo stesso autore afferma che tra le sue maggiori ispirazioni ci sono le opere di Calvino e Lynch: è chiaro quindi che esistono multipli livelli di lettura, sovrapposti e/o nidificati, e che lo stesso svolgimento del gioco sia a sua volta una metafora della ricerca di un obiettivo irraggiungibile, e che forse, anzi, non vuole essere raggiunto.

Un’ulteriore conferma di questa interpretazione sono le stelle: nel gioco sono nascoste otto stelle, in posizioni estremamente difficili da raggiungere, che richiedono una manipolazione creativa delle regole del gioco e una grande abilità nei movimenti. Di queste stelle, una richiede un’attesa di oltre due ore per poter essere raggiunta, una può essere ottenuta solo prima di aver completato uno dei puzzle, l’ultima appare solo quando sono state prese le sette precedenti. Le stelle sono quindi obiettivi così remoti, così astrusi, che richiedono enormi sforzi di volontà e pazienza, e solo i giocatori più motivati (ossessionati?) riusciranno a trovarle tutte. Un’approfondita trattazione di come, secondo l’epilogo, deve essere interpretato Braidsi può trovare qui, ma si sconsiglia assolutamente la lettura prima di aver finito il gioco (lo stesso vale per i video su youtube relativi all’ultimo livello: non guardateli!). Ma qualunque sia il significato che vorrete dare alla storia, vi accorgerete comunque di esserne stati toccati, e sarà difficile rimanere insensibili a quanto avete visto e appreso. Vi accorgerete che forse, alla fine, non è tanto l’obiettivo finale che ha importanza, quanto il percorso che vi ha condotti fin laggiù.

Braid non è un gioco facile, almeno non nel senso di “leggero”. Come può essere giocare una partita a scacchi, muoversi all’interno di Braid richiede presenza e concentrazione. Per stessa ammissione dell’autore, ogni puzzle è unico, e c’è un solo modo di risolverlo. Non esistono filler, cioè parti di gioco non necessarie che fanno da “riempimento”: tutte le situazioni che si presentano sono nuove e devono essere risolte studiando la giusta combinazione di movimenti e meccanica di gioco. Non c’è nessun dettaglio lasciato al caso: un nemico, una porta, una leva, si trovano sempre in un punto preciso per una ragione specifica, ed è penetrando la struttura di ogni livello che si può arrivare alla soluzione. Al tempo stesso però, questo non significa che si tratta di un gioco difficile e frustrante. Se anche alcuni pezzi possono sulle prime apparire irraggiungibili, la soluzione è sempre perfettamente ricavabile attraverso un percorso lineare. In molti casi può capitare di lasciare un livello con alcuni pezzi ancora da conquistare (almeno in uno è in effetti necessario), passare al successivo, e ritornare in seguito su quelli abbandonati per accorgersi di aver trovato la giusta strategia. Personalmente, su 60 pezzi totali da collezionare, solo in due casi ho avuto bisogno di un piccolo “aiuto”, per poi scoprire che avrei potuto facilmente capire da solo la soluzione, con un semplice scatto in più di elasticità mentale. Jonathan Blow afferma con orgoglio di trattare i suoi giocatori con estremo rispetto, valorizzando il tempo da loro speso su Braid, e questo è maggiormente vero quanto più un giocatore si impegna con le sole proprie risorse. Solo allora si partecipa veramente alla storia di Tim, ci si lascia coinvolgere e si ottiene vera soddisfazione dai risultati raggiunti. È questo il senso del walkthrough ufficiale inserito sul sito del gioco.

Jonathan Blow, e la sua esperienza nella creazione e diffusione di Braid, è presente anche in Indie Game: The Movie, un docu-film che segue appunto la realizzazione di alcuni giochi indipendenti (oltre a Braid: Super Meat Boy e Fez). Qui l’autore esprime alcune idee interessanti sul processo creativo che sta dietro il gioco, e su come i videogiochi rappresentino un mezzo di comunicazione potente, a patto che siano progettati come opere vere e proprie, e non prodotti di consumo. Sono sue le parole che chiudono il film: “Le cose personali hanno imperfezioni, hanno vulnerabilità. Se non vediamo vulnerabilità in qualcuno, non possiamo rapportarci a lui a livello personale. Vale lo stesso nel progettare giochi: realizzarlo è stato come prendere tutte le mie imperfezioni e vulnerabilità, e mettercele dentro. E poi scoprire cosa viene fuori.” Blow sta attualmente lavorando a un altro gioco, The Witness, che si suppone possa uscire il prossimo anno.

In conclusione, Braid, pur nella sua semplicità strutturale, è più di un gioco. È intrattenimento, certo, ma lo è nel senso in cui anche un romanzo o una sinfonia lo sono. Si tratta di un prodotto di grande valore, fatto per trasmettere e condividere emozioni. E questo, solitamente, è ciò che viene definito “arte”.

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