Gattaca – La porta dell’universo (film)

GATTACA – LA PORTA DELL’UNIVERSO – RECENSIONE DI GIANLUCA SANTINI

La discriminazione è elevata a sistema.

Frase emblematica, che racchiude tutto quello che ci sarebbe da dire su “Gattaca – La porta dell’universo“, film del 1997 scritto e diretto da Andrew Niccol.

Il regista è al suo esordio, ma “Gattaca” si rivela un’opera di indubbia qualità, curata in ogni dettaglio, portata avanti con caparbietà e coraggio narrativo. La storia si colloca in futuro prossimo, in cui la genetica ha fatto talmente tanti passi avanti che quasi tutti i figli vengono progettati fin dalla nascita, in modo da selezionare il proprio corredo genetico e favorirli in tutti gli aspetti della vita, dalla prestanza fisica alle inclinazioni morali, dalle facoltà intellettive alla predisposizione o meno per certe malattie. Vincent invece è nato alla “vecchia maniera”, senza intervento genetico, ma sogna lo spazio, sogna di lavorare a Gattaca, l’azienda adibita ai lanci spaziali. Nonostante sia preparatissimo sulle materie per l’esame di ammissione, Vincent non supererebbe mai l’esame più importante, quello del corredo genetico. Per poter entrare a Gattaca si rivolge dunque a un misterioso individuo e acquista l’identità genetica di Jerome Morrow, atleta che è rimasto invalido dopo un incidente. Assumendo l’identità di Jerome riesce a entrare a Gattaca e a venir selezionato per una missione di un anno su Titano, una delle lune di Saturno. Tuttavia il direttore della missione viene brutalmente assassinato, e la polizia comincia a fare indagini sempre più approfondite dentro Gattaca…La società è il fulcro di tutto il film, a mio avviso. Quella citazione, che ho riportato in apertura, è davvero simbolica di tutta la storia che Niccol scrive e dirige. La discriminazione genetica è l’estremizzazione delle tante piccole e grandi discriminazioni che affliggono la nostra stessa società. Allo stesso tempo, il film è esaltazione delle proprie possibilità. Volere è potere, sembra suggerirci la vicenda di Vincent, e le possibilità sembrano essere alla portata di tutti, indipendentemente dalle tante etichette che ci vengono affibbiate alla nascita.

Il mondo del film è pervaso dai nuovi risvolti della genetica, e per certi punti di vista questo aspetto è piuttosto inquietante. Basta pensare alle nuove tecniche di indagine della polizia, quasi esclusivamente focalizzate sulle prove genetiche, piuttosto che su ragionamenti, moventi e alibi. O ancora, aspetto approfondito più del precedente, il nuovo rituale di corteggiamento, che passa – in un momento o nell’altro – dalla possibilità di far verificare il corredo genetico del potenziale partner, per valutarne scientificamente la qualità. Sentimenti messi da parte in favore di una standardizzazione dei criteri, di un appiattimento delle relazioni. Non è un caso se la maggior parte dei personaggi siano così freddi e distanti, in un mondo in cui non è tanto la tecnologia a distaccare, come in tanti altri film di fantascienza, ma la consapevolezza che già tutto è stato scritto nel proprio DNA. In questo modo si perde la magia del vivere, la sorpresa, l’entusiasmo e il desiderio.

Da questo punto di vista Uma Thurman, Edward Hawke e Jude Law – il terzetto di attori principali – giocano benissimo con i loro personaggi. Tutti e tre, per motivi diversi, sono incastrati all’interno dei meccanismi della loro società, e cercano di sfuggire alle catalogazioni. Irene Cassini, interpretata dalla Thurman, all’apparenza sembra algida, distaccata e fredda, invece procedendo nella storia si rivela un personaggio fragile, alla ricerca di un amore disinteressato e puro, privo di pregiudizi e sincero. L’attrice riesce a rendere perfettamente il graduale approfondimento della psicologia del suo personaggio, anche se è da ammettere che nel finale un aspetto che riguarda Irene è stato trattato con delle lievi sbavature di sceneggiatura.

Vincent, interpretato da Edward Hawke, è quello dei tre che è rimasto incastrato nei meccanismi della società fin dalla nascita. Consapevole di essere inferiore, agogna alla meta più irraggiungibile, lo spazio. Nonostante non si veda mai, in “Gattaca” la presenza narrativa dello spazio è enorme. Quei lanci che Vincent segue ogni giorno, sperando di poter essere lui stesso nella prossima nave spaziale, sono il continuo segno della tensione dell’uomo verso e oltre i propri limiti, il desiderio di scoprire, indagare, studiare. Per Vincent lo spazio è questo e molto altro, è la stessa ragione della sua vita, il suo obiettivo principale. Ricercarlo è il modo per sfuggire alle barriere imposte a lui e agli altri simili a lui fin dal primo momento in cui sono venuti al mondo.

Jerome, l’originale, interpretato da Jude Law, è agli antipodi rispetto a Vincent, e per questo motivo formano una coppia eccezionale e azzeccata. Jerome è stato illuso fin dalla nascita di avere tutti i numeri per vincere ed eccellere, ma è sempre stato un eterno secondo. L’incidente lo ha relegato su una sedia a rotelle e il suo unico obiettivo è vedere realizzato quello di Vincent, perché solo in questo modo potrà aver fatto davvero qualcosa di utile nella vita. Jerome è un personaggio arrogante e spavaldo, nato e cresciuto con l’idea di essere il migliore. Per questo motivo il rapporto con Vincent è lento a ingranare, ma quando tra i due si crea un rapporto d’amicizia, Jerome si rivela una persona decisamente migliore di quel che sembrava, e non tanto a livello fisico, ma a livello caratteriale. Anche in questo caso, come nel caso di Irene, l’evoluzione è gestita curando sapientemente i tempi narrativi e Jude Law è bravo nel far trasparire le diverse sfaccettature del suo personaggio.

L’ambientazione gioca con l’estetica anni ’60, ma con una tecnologia molto più avanzata. Devo dire che l’impatto visivo è decisamente positivo: il mondo di “Gattaca” sembra avere, come i suoi personaggi, una doppia anima. Fredda e distaccata la prima, più spensierata e libera la seconda. Questo viene trasmesso anche attraverso le immagini, con una fotografia che esalta tonalità spente e malsane durante il giorno, e luci e colori accesi durante la notte. Il giorno visto come quotidianità, imbrigliata quindi nelle regole della genetica e delle relazioni basate sulla lettura del DNA altrui, mentre la notte è territorio di svago, è il momento in cui si possono abbandonare maschere e divise ed essere finalmente sé stessi. Non è un caso se proprio attraverso il contrasto tra scene diurne e notturne si percepiscano in maniera marcata le evoluzioni dei personaggi principali.

La sceneggiatura infine, curata sempre da Andrew Niccol, è solidissima, eccezion fatta per quella piccola sbavatura riguardante Irene di cui ho già accennato. Tralasciando quell’aspetto, ogni battuta è fondamentale, anche le frasi buttate quasi per caso dai personaggi secondari si rivelano in realtà importanti per comprendere al meglio la storia nel suo complesso e le dinamiche interne della società di “Gattaca”, per mostrare che non è tutto così scontato come sembra a prima vista. E poi ci sono continui richiami interni, ripetizioni vere e proprie, un gioco di rimandi narrativi che rafforza l’introspezione e il coinvolgimento nei personaggi.

“Gattaca” è dunque un ottimo prodotto, capace di veicolare messaggi importanti con un confezionamento di fantascienza molto intrigante e con un’attenzione estetica e narrativa molto profonda. Come ho già detto, i risvolti narrativi della società di “Gattaca” sono inquietanti: da questo punto di vista la frase “In un futuro non troppo lontano” posta all’inizio non è solo d’ambientazione, ma sembra quasi un avvertimento, suona quasi come una minaccia.

GATTACA – LA PORTA DELL’UNIVERSO – RECENSIONE DI DAVIDE MANA

Non esiste un gene per il destino

Gattaca è una pellicola che raramente viene menzionata quando si cerca di indicare una lista di buoni film di fantascienza – buoni nel senso che siano in grado di accoppiare una storia solida con una speculazione scientifica e sociale interessante, che siano capaci di sollevare dei dubbi, di stimolare delle riflessioni.
In certe liste compaiono i grandi classici – 2001, Silent Running, Blade Runner
Gattaca rimane defilato.

Eppure, questa storia ambientata in un futuro che sembra idolatrare la perfezione ed avere un gusto vagamente retrò e modernista nell’abbigliamento e nell’architettura, c’è molta sostanza.

La società eugenetica nella quale si svolge l’azione non è inerentemente malevola – non è una dittatura orwelliana, è piuttosto una banale dittatura dei migliori, una meritocrazia priva di compassione.
Quella che in fondo è una buona idea – lo screening genetico delle malformazioni – è semplicemente diventato uno strumento non tanto di repressione, quanto di disuguaglianza.
La tecnologia funziona, ma la burocrazia l’ha trasformata in una trappola – per alcuni.
Questi non sono nazisti, sono solo persone fermamente convinte di aver risolto dei problemi – senza accorgersi di averne creati altri.
Il sistema, oltretutto, non è impervio ai cambiamenti – esiste la possibilità che la situazione migliori, che la freddezza (che il film trasmette attraverso il look, le scenografie, la colonna sonora) venga smorzata. Ci sono’persone che ci stanno lavorando – a cominciare da quelli che rimangono per me i personaggi più interessanti del film, l’investigatore Hugo interpretato da Alan Arkin ed il dottor Lamar interpretato da Xander Berkeley.


Nella freddezza glaciale del mondo di Gattaca, l’individualismo e la compassione sopravvivono, e le qualità intellettuali innate valgono quanto quelle geneticamente migliorate.
In questo, il film si distanzia decisamente dalle distropie recentemente servite al pubblico (Avatar? Io non ho detto Avatar!), nelle quali è il protagonista l’unico elemento sano di una collettività completamente corrotta che casomai toccherà all’eroe tentare di redimere.
La società di Gattaca sbaglia,  ma è sana, poiché ammette l’ipotesi di un miglioramento, del riconoscimento degli errori.

L’errore è presente a tutti i livelli della pellicola – in fondo, il motore dell’azione, la scintilla che innesca l’incendio è in fondo la scelta in buona fede di due genitori amorevoli (Jayne Brook e Elias Koteas, misuratissimi e splendidi), che rappresentano con le proprie contraddizioni i legittimi e benevoli desideri che due genitori possono provare per i propri figli.

Non solo: se la collettività, in Gattaca, mostra i germi incoraggianti di una possibile, probabile redenzione, l’eroe, Vincent, è in fondo molto più complicato del tradizionale “unico uomo giusto” di tante contro-utopie.
Certo, Vincent combatte per la realizzazione del proprio sogno – un tratto romantico che lo rende istintivamente simpatico.
Ma per realizzare il proprio sogno non esita a usare chi lo circonda – a cominciare da Jerome, suo complice e alter-ego tragico.
Jerome è ben felice di farsi usare, certo, è lui il primo a proporre il piano attorno al quale ruota l’intera vicenda, ma Vincent lo usa, senza troppe remore.
Così come usa Irene.
E nella propria scalata alla missione verso Saturno, Vincent ignora, senza alcun problema morale evidente, il fatto che la sua presenza sul razzo per Titano potrebbe mettere in pericolo l’intera missione, condannare tutti i propri compagni di viaggio.
In questo egoismo centripeto, Vincent è in fondo un rappresentante perfetto della cultura eugenetica nella quale si trova intrappolato.
Vincent non è un eroe nel senso tradizionale, e dovrà essere Jerome – arrogante e sarcastico per tutta la durata della pellicola – a redimerlo con un ultimo gesto assoluto, rivelandosi l’autentico eroe della situazione.

Non mancano poi gli ovvi elementi metaforici – piazzati lì per aiutare gli spettatori più distratti.
I nomi ovviamente – Vincent (vincente, in un modo o nell’altro) è Freeman, un uomo libero, mentre Jerome di secondo nome fa Eugene, ovvio riferimento all’eugenetica. La bella Irene di cognome fa Cassini, a segnalare il suo legame come oggetto del desiderio con il pianeta Saturno.
E poi gli oggetti – la scala a chiocciola che richiama la doppia elica del DNA e che è centrale nella scena probabilmente più drammatica del film.
E i razzi, in perpetuo decollo, a sottolineare quanto vivino e lontano sia il desiderio di Vincent.

Discostandosi dai canoni semplicistici di film che hanno avuto molto più successo al botteghino, Gattaca è un ottimo film di fantascienza; combina la scienza e la tecnologia con una solida storia e usa la storia (e non la scienza e la tecnologia “nude”) per stimolare le idee.
Ha un look eccellente, la colonna sonora di Michael Nyman, delle interpretazioni solidissime.
Tutto, persino la canonica storia d’amore dell’eroe con la bella e glaciale Irene viene usato per portare avanti la trama, spingere un po’ più in là le questioni morali e culturali che sono il cuore della pellicola.
E ci riesce mantenendo un eccellente livello di tensione.
Non male, per un’opera prima.

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