Katherine Burdekin – La notte della svastica

Il nostro Massimo Citi ha riletto per noi un romanzo distopico e disperato, memoria di un futuro che per fortuna non ha potuto realizzarsi. Questa recensione è già apparsa su Libri Nuovi – Out of print.

Katherine Burdekin

La notte della svastica

(Orig. Swastika Night)

Ed Riuniti pp. 220 L. 25.000

Germania, anno del Signore Hitler 720, la separazione di genere si è consumata definitivamente. Uomini e donne – sospinti dalla religione hitleriana – hanno abitudini, residenze, modi di vita completamente diversi. Le donne – rapate, umiliate, recluse – vivono separata nei loro quartieri dove gli uomini possono andarle a trovare e fecondarle. Il figlio, se femmina, resterà a loro, se maschio, allo scadere dei due anni sarà consegnato al padre, l’unico in grado di crescere un Uomo secondo gli insegnamenti di Hitler.

Il Reich qui, nel romanzo della Burdekin scritto nel 1935, è davvero diventato millenario. Sulla Terra, divisa a metà tra il Reich e l’Impero Giapponese solo gli uomini sono considerati umani, le donne sono un patetico incidente, un deprecabile errore al quale si tenta di ovviare in qualche modo. Anche il protagonista – un inglese convinto della necessità di abbattere il regime che governa metà del mondo – non riesce a trovare nulla di simile tra sè e una donna e si ritrae spaventato dall’idea che questa somiglianza sia mai stata possibile.

Il buio degli anni trascorsi ha realizzato ciò che per natura pare impossibile: l’estinzione del desiderio sessuale eterofilo. Nelle pagine della Burdekin, livide, grigie, puntuali come una sentenza, tale impossibilità è divenuta reale, non esistono più leggi di natura per la specie umana. Ed è proprio un Cavaliere del Reich a ricordare che furono le donne per prime ad accettare di incarnare fino in fondo il ruolo dell’angelo del focolare, a sottrarsi, a nascondersi, a essere riposo del guerriero e custodi del desco, fino a quando il filo sottile che le univa con i maschi non si spezzò definitivamente, fino a quando l’amore tra i maschi – gli unici che, come nell’antica Grecia, potevano vivere un amore alla pari – non relegò la passione per il corpo femminile a deprecabile funzione fisiologica, simile al defecare e orinare.

Nel mondo della Burdekin amare una donna è divenuto oggettivamente impossibile, non più plausibile di quanto sarebbe per noi l’idea di “amare” un cane. A una donna non si chiede nulla di più che la devozione di certi cani da caccia, liberati dalle gabbie solo per la stagione dei fagiani.

Swastika Night, scritto dodici anni prima di 1984, ne prefigura i temi: il controllo sociale capillare, la cancellazione della storia a fini politici. Carlo Pagetti, nella sua breve introduzione, accusa larvatamente Orwell di non aver mai voluto riconoscere tale debito in nome del suo “culto della virilità proletaria”. Se sembra esagerato condurre fino a questo segno la misoginia di George Orwell – comune anche negli ambienti progressisti degli anni ’30 e ’40 – resta il fatto che i due romanzi nascono probabilmente da incontri, riflessioni, meditazioni maturate in ambienti condivisi.

Ma l’incubo di Swastika Night ha in sé qualcosa di ancor più stranamente inquietante, affronta come pochi altri il tema dell’acquiescenza e delle aberrazioni possibili in tema di specificità sessuale, con la lucidità di una visione profetica.

L’ispirazione di molte delle scrittrici americane degli anni ’70 (Ursula Le Guin, Joanna Russ, Margaret Atwood, Racoona Sheldon) deve molto alla radicalità della Notte della Svastica. Un libro come Il Racconto dell’ancella di Margaret Atwood mutua infatti non solo il tema principale ma anche situazioni e ambientazione dal romanzo della Burdekin.

Il passare degli anni non ne ha minimamente scalfito la durezza ultimativa e l’angoscia: si tratta di un libro nel quale è facile entrare e difficile uscire.

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