The Colony (film)

Nel 2045 l’umanità ha tentato di mettere sotto controllo il clima per contrastare il global warning, il risultato è stato una catastrofe. Pochi anni dopo, il nostro pianeta è coperto di neve che continua a cadere, la civiltà è collassata e solo pochi gruppi di sopravvissuti portano avanti una lotta strenua per andare avanti.

Verrebbe da iniziare la recensione di un film come questo con “sì, un altro film post apocalittico” e concluderla con “no, non ne valeva la pena”; ma sarebbe troppo facile. Il film in sè ha qualche merito, non fosse altro che per i temi che tocca e per l’incredibile sequela di cose assurde che contiene. Per intenderci, siamo quasi dalle parti delle produzioni marcate Asylum e no, non è complimento. E dire che c’erano a disposizione due attori di buon livello, Laurence Fishburne e Bill Paxton, con un regista di non mediocre reputazione. Anche il tema di fondo, il post apocalittico, per quanto abusato a dismisura può sempre consentire di introdurre elementi di spessore e di poter giocare con un certo livello di complicità da parte del pubblico, ormai abituato a mandare giù cose assurde.

In partenza non va neppure così male. Una colonia isolata nel panorama latteo delle distese innevate, la percezione immediata della solitudine e del clima da assedio di chi sa che al di fuori dei propri fragili confini può solo trovare la morte. Vedi facce familiari nel cast, ti godi la location (è stata usata una base dell’aeronautica militare canadese), ti guardi attorno e ti predisponi a goderti lo spettacolo. Nel mentre, archivi la fastidiosa impressione che ti dà vedere persone che all’esterno, mentre nevica, respirano senza che si veda condensazione. Sul lato positivo hai già comunque messo le difficoltà raccontate senza fronzoli, a partire dall’estrema vulnerabilità alle malattie. Alla porta hanno già bussato un simpatico gruppo di cliché e si sono messi comodi. Se ti guardi attorno vedi che sono già abbastanza per un torneo di poker.

 

SPOILER da qui in poi

Il motivo primo dell’apocalissi è stata la lotta al riscaldamento globale. Per contrastare questo fenomeno furono costruiti in tutto il mondo degli impianti di grandi dimensioni, torri alte centinaia di metri, il cui scopo doveva essere quello di raffreddare l’atmosfera. Com’è ovvio, qualcosa andò storto e si innescò il super-inverno. La carenza di risorse provoca il crollo dell’ordine sociale e una robusta riduzione della razza umana, ridotta da quello che si capisce a sopravvivere in piccole enclave sparse qui e là. Qui c’è un altro dei loop logici del film: come potrebbero andare avanti gruppi così piccoli? Nell’arco di pochi anni il problema della consanguineità li annienterebbe. Ma andiamo avanti.

L’evento scatenante della trama è un altro classico: una colonia vicina chiede aiuto. Un segnale di SOS, ripetuto di continuo, nessun altro dettaglio.

Dalla colonia parte una piccola missione di soccorso, la cui composizione è un altro cliché: il capo buono (Fishburne), il maverick (Kevin Zegers, fa anche da io narrante – altro cliché) e il giovane-vittima predestinata (Atticus Dean Mitchell). Il trio affronta una lunga marcia in un territorio urbano desolato, che dovrebbe trasmettere allo spettatore l’orrore del disastro climatico. Peccato che non funzioni. Dopo anni e anni di neve il panorama dovrebbe essere parecchio diverso, per non parlare dei danni indotti dal peso della neve. Invece possono usare la pulitissima carlinga di un elicottero come punto di riposo, attraversare un ponte che semplicemente non potrebbero esistere e in generale andarsene a spasso senza grosse difficoltà. Chiunque abbia avuto l’esperienza di camminare su un mezzo metro di neve fresca capisce che non ha senso mostrare le cose in questo modo (bastava fargli mettere delle racchette per camminare, non era difficile).

La colonia in difficoltà è all’interno di una ex fabbrica, il punto di ingresso è una ciminiera. E qui cominciamo subito con le incongruenze. Il trio trova tracce di sangue all’esterno. Dovrebbe essere gelato o semisolido, sembra versato cinque secondi prima. Nessuna traccia attorno. Si calano all’interno e alla base trovano altre secchiate di sangue per terra e sulle pareti. Appena si addentrano nei locali della fabbrica sentono ad intervalli regolari dei rumori, sembrano colpi che riecheggiano tutto attorno. Li seguono e trovano l’unico sopravvissuto (Julian Richings). Qui scattano tre minuti di delirio, il crollo logico definitivo del film.

In condizioni simili si dovrebbe interrogare in maniera estesa il malcapitato, no? No, era troppo facile. Ne traggono solo l’idea che qualcuno –non si sa chi – ha ammazzato tutti. Poi, il numero da circo: la colonia aveva captato poco prima della strage una trasmissione da un altro gruppo e costoro sarebbero riusciti a riattivare una delle torri climatiche, invertendone il funzionamento (!) e ottenendo una zona attorno dal clima mite (!!), dove splende il Sole (!!!). Il permafrost (!!!!) si sarebbe sciolto e vorrebbero seminare ma non hanno il necessario. Da una sequenza iniziale sappiamo che la colonia di Fishburne ha semi in quantità. Sono trenta secondi di delirio, non c’è altro da dire. La colonia disgraziata aveva inviato una spedizione alla ricerca di questo gruppo, grazie a un parziale set di coordinate. Al posto dei propri compagni era arrivato qualcun altro, presumibilmente usando le tracce lasciate dalla spedizione (e la neve che cade perenne? Mah!). Per farla breve, c’è un gruppo di cannibali in giro. Con tanto di leader cattivissimo con i denti limati (Dru Viergever, dove abbia appreso un uso fondamentalmente africano non è dato saperlo). C’è un primo scontro nella colonia condannata, la vittima predestinata ci lascia le penne e si conclude con un momento di bellica assurdità: la ciminiera che esplode in maniera graficissima dopo che era stato lanciata al suo interno una modesta quantità di dinamite; invece di esplodere alla base esplode a livello terra, decine di metri più su.

Ovviamente i cannibali inseguono i superstiti e qui ritroviamo il ponte, dove il leader si sacrifica per fermarne l’avanzata (sì, è un altro cliché). L’unico sopravvissuto della missione riesce a tornare alla colonia dove in loro assenza c’è stato un cambio di leadership, tutta in ottica solo-i-forti-dominano (yes, un cliché). Guarda un po’, arrivano i cannibali e finisce malissimo. Per fortuna siamo quasi alla fine ma non mancano gli ultimi momenti in cui salutiamo qualsiasi residuo di dignità rimasta a questo film; c’è la lotta tra il maverick e leader cannibale, tanto esagerata da essere comica, per concludere con un ultimo classico: i pochi superstiti della colonia che seguono con i semi (ricordate?) il nuovo leader verso la terra promessa.
Mentre riflettete su perché avete sprecato due ore con questo film vi rendete conto di un momento di sollievo: i cliché sono andati via, lasciandovi finalmente in pace.

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