Combattere il riscaldamento globale?

Questo signore si chiama David Keith. E’ un fisico americano piuttosto noto, per essere precisi insegna fisica applicata ad Harvard. E’ anche uno dei più grandi sostenitori della possibilità, nonchè della necessità, di intervenire in maniera diretta sul problema del riscaldamento globale. Tramite opere di ingegneria che consentano di intervenire sul clima. Prospettive ambiziose? Rischi troppo grandi? Keith non si nasconde le difficoltà, nè sottovaluta le possibili implicazioni, ma pone una domanda: possiamo davvero non fare nulla?

La sua tesi è molto chiara, agire prima possibile. I report IPCC sono sempre più inequivocabili, dando previsioni sempre più sinistre per la salute del nostro pianeta – per intenderci, un quadro fosco destinato a realizzarsi nell’arco di pochi decenni. La volontà politica in questo senso è stata assente, quando non del tutto ostile, da parte dei paesi più rilevanti (USA, Cina, Russia, India, Giappone e Brasile) sul piano economico, con l’ovvia conseguenza di non far partire azioni veramente incisive per combattere il cambiamento climatico.

Tuttavia secondo Keith e alcuni suoi colleghi, non solo è possibile fare qualcosa ma esistono una serie di progetti realizzabili con tecnologie già disponibili – in alcuni casi con budget tutto sommato contenuti. L’idea di fondo è quella di abbattere di più del 50%  il cosiddetto rischio climatico, il che non risolverebbe del tutto il problema ma potrebbe darci il tempo sufficiente per elaborare strategie di lungo termine per tornare all’equilibrio naturale del nostro pianeta.  Le due tecniche di base sono note, in qualche misura anche già applicate da qualche anno a questa parte. Si parla di immettere nell’atmosfera delle sostanze, in particolare particelle saline su alcuni tipi di nuvole e biossido di zolfo a livello della stratosfera. Quello che si ottiene in entrambi i casi è aumentare il livello di riflessione del calore.

I rischi ci sono e le controversie in merito sono a dir poco bollenti. Il rischio di alterare, non si sa in quale misura, la piovosità in alcune zone a scapito di altre, i dubbi sugli effetti sullo strato di ozono a breve e medio termine e le conseguenze sul modello climatico globale (di cui non sappiamo ancora abbastanza) sono del tutto imprevedibili. I sostenitori di Keith invece parlano di interventi estremamente mirati, citando esempi come gli interventi cinesi per le recenti olimpiadi e gli esperimenti russi fatti a partire dal 2002. Per tutti è chiaro che il punto focale è limitare il più possibile l’emissione di gas serra in un arco di tempo molto contenuto (pochi anni).

La differenza di base tra le due posizioni è che Keith sostiene che in assenza di una emergenza imminente i politici non appoggeranno mai una drastica riduzione di emissioni e che per allora sarà troppo tardi anche per le misure più estreme. I suoi avversari viceversa mettono l’accento che aggiungere altre pratiche rischiose a quanto già in essere non faccia altro che peggiorare le cose. Come avrete intuito non è facile prendere una posizione. I risultati sperimentali disponibili ad ora riguardano fenomeni molto limitati e manca del tutto uno studio sul medio o lungo termine di interventi come quelli prospettati dal fisico americano.

Quello che è certo è che anche la prossima conferenza di Parigi, nel 2015, rischia di essere un monumento alla burocrazia e che molti dei firmatari del trattato di Kyoto (Italia compresa) non hanno mantenuto gli impegni presi. Il punto è: quanto tempo abbiamo ancora?

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