
Sopra le nostre teste ci sono milioni, decine, centinaia di milioni di frammenti in orbita. Sono i resti di decenni di tentativi, di successi e fallimenti nelle attività spaziali. Si va da oggetti piccolissimi, pochi millimetri, a manufatti di grandi dimensioni, alcuni dei quali con all’interno materiali radioattivi. Ogni anno il problema peggiora, ogni giorno possono accadere collisioni tra questi frammenti, i cui effetti si propalano fino all’orbita bassa, ai limiti dell’atmosfera. Quello che ne consegue, ovviamente, è che la rete dei satelliti da cui dipendiamo diviene sempre più a rischio, così come diventa via via più difficile garantire una ragionevole sicurezza ad attività di alto profilo come la ISS.
Soluzioni semplici all’orizzonte non se ne vedono. Spingere questi frammenti verso l’atmosfera, contando sull’effetto dell’attrito per distruggerli mentre precipitano verso la superficie del pianeta, non risolve la questione dal momento che gli oggetti più grossi riuscirebbero ad arrivare al suolo con effetti potenzialmente devastanti. Espellerli verso lo spazio esterno sposterebbe la frontiera del pericolo dal momento che finirebbero per assumere traiettorie comunque pericolose per le nostre attività. Per non parlare del fatto che non abbiamo una soluzione tecnica pronta e realizzabile “ora” per cominciare questa immane opera di pulizia.
Finalmente se ne comincia a parlare pubblicamente e in questo senso è da apprezzare che questa settimana, dal 22 al 25, si terrà a Darmstadt la sesta conferenza ESA dedicata all’argomento dei detriti spaziali. Da quello che è stato fatto filtrare ai media dovrebbero essere presentati in quella sede dei progetti concreti, opzioni tra cui scegliere per sostenere un progetto europeo da presentare ai nostri partner americani e russi. Le implicazioni economiche, sia come costi che come possibili ricavi, sono evidenti e speriamo siano un motivo sufficiente per spingere all’azione le agenzie spaziali.
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