Source Code (film)

Qui su “Il futuro è tornato” si era già parlato del primo film del regista Duncan Jones, “Moon”. Oggi invece si parlerà del suo secondo lungometraggio, “Source Code”, uscito nel 2011.

SOURCE CODE – LA RECENSIONE DI GIANLUCA SANTINI

Titolo: Source Code

Regista: Duncan Jones

Anno: 2011

Nazionalità: USA, Francia

Attori principali: Jake Gyllenhaal, Michelle Monaghan, Vera Farmiga, Jeffrey Wright

Trama: Il capitano Colter Stevens si sveglia su un treno diretto a Chicago. Sembra che una ragazza lo conosca, eppure Colter non ha nessuna idea di chi sia né di dove si trovi. Dopo qualche minuto, il treno esplode e lui si ritrova in una capsula. Finalmente ricorda, è parte di una missione per individuare il responsabile di quell’esplosione.

Commento: Le suggestioni della fisica quantistica, in particolare la teoria dei Molti Mondi, sono sempre intriganti per i creativi, siano essi registi o scrittori. Jones non ne è rimasto immune, dal momento che  la trama di Source Code attinge a piene mani dalle teorie sui mondi paralleli e sulle possibilità di scelta che conducono a esistenze alternative.

Jake Gyllenhaal, già volto noto dai tempi di “Donnie Darko”, interpreta il capitano Stevens, alle prese con un mistero più grande di lui. È parte di una missione per individuare l’attentatore del treno, ma, come nella migliore tradizione, chi gli dà ordini gli nasconde anche molte cose. Quindi i due misteri, quello dell’attentato e quello sulla missione in sé, si intrecciano, creando una forte suspence che tiene alta la tensione fino alla fine della pellicola. Jones è capace di portare avanti una trama molto delicata senza tentennamenti o sbavature. Il rischio era quello che tutta l’atmosfera crollasse su sé stessa, vanificando l’immedesimazione e il coinvolgimento. Questo però non accade, Jones riesce a gestire i tempi narrativi e a dosare le rivelazioni in maniera da mantenere stabile l’impianto narrativo, in modo da avere sempre qualcosa in più da rivelare, al punto che alla folle corsa del treno, inarrestabile, si somma la disperata ricerca di Stevens e dello stesso spettatore, che si ritrova a provare empatia per il povero capitano senza quasi rendersene conto.

Tutto ciò viene favorito dalla recitazione e dalle musiche. Gli attori sono perfettamente calati nelle loro parti, e anche chi è solo un comprimario riesce a trasmettere allo spettatore la personalità del suo personaggio. Quel vagone del treno in cui si svolge la gran parte della storia diventa un luogo familiare, popolato da personaggi che riusciamo subito a distinguere, nonostante siano solo tratteggiati. Su tutti ovviamente risaltano i personaggi principali e i relativi attori: il già citato Jake Gyllenhaal, ma anche Michelle Monaghan e Vera Farmiga. La colonna sonora è gestita in maniera tale da accompagnare al meglio le fasi della pellicola. Musiche più tranquille nelle scene di indagine vengono sostituite da ritmi concitati nelle seppur poche sequenze di azione. Quindi anche dal punto di vista musicale non ci sono sbavature rilevanti.

Source Code è un film di fantascienza sì, ma anche un veicolo per tematiche interessanti e universali. Del resto, per quanto molti non siano d’accordo, il genere è sempre stato capace di trasmettere messaggi importanti. Source Code parla della qualità del tempo, dell’assaporare ogni istante, ma anche del rapporto padre-figlio e, ovviamente, dell’amore. Un insieme di suggestioni diverse che si mescola senza forzature, senza risultare banale o artificiale. Le vicende che vive il capitano Stevens sono collegate a doppio filo con le tematiche che Jones vuole portare avanti: le immagini diventano esempio concreto di messaggi astratti, e il messaggio si fa a sua volta concreto, all’interno della struttura narrativa fondante di Source Code. Anche qui, come per i personaggi secondari, bastano pochi accenni, per riuscire a far filtrare tutto allo spettatore.

Insomma, questo è un film che merita di essere visto e Duncan Jones è un regista da tenere maledettamente sott’occhio.

Voto: 8

SOURCE CODE: I PARADOSSI (di Angelo Benuzzi).

(attenzione: oltre questo punto sono presenti spoiler su punti fondamentali della trama del film, se proseguite lo fate a vostro rischio)

Stiamo parlando di un film molto ambizioso dal punto di vista della sceneggiatura, uno dei pochi che contempli dei paradossi logici al punto da farne dei punti di forza. O di debolezza. Source Code non è esente da pecche dal punto di vista logico, al punto da risultare poco convincente in alcuni punti del suo svolgimento.

La base di partenza, l’assunto su cui si fonda tutto, è che esista una tecnologia in grado di far ripercorrere a un avatar del protagonista gli eventi di una sequenza temporale precisa e che consenta allo stesso avatar di interagire con tutte le persone e gli oggetti che contiene. Il tutto viene spiegato con tre secondi di tecno bla-bla nel film, possiamo accettarlo e proseguire anche se sovviene un minimo di giramento di testa per la complessità del compito.

Lo stesso sistema è in grado di lasciare una traccia nelle memorie del protagonista, in modo che possa imparare dalle sue esperienze in quel contesto quantistico / virtuale. Dall’esterno, almeno questo si evince dal comportamento dell’ufficiale interpretato da Vera Farmiga, non si riesce invece a seguire cosa accade. L’esperienza diretta del capitano Stevens pare essere l’unico output del sistema, da qui la necessità di reinviarlo fino alla soluzione del problema. E qui c’è il primo, grosso, problema. Stevens è presente fuori e dentro dal sistema, gli altri personaggi della simulazione no. Se è vero che la simulazione proviene dalle memorie di una delle vittime come viene detto nel film o dal complesso delle memorie delle vittime, non è chiarissimo, spiegare le diverse iterazioni dentro o fuori dal treno mi sembra problematico.

Secondo problema, la bomba sul treno. Si sa che c’è, possono essersi fatta una buona idea di come sia fatta ma è assurdo che Stevens sia in grado di esaminarla e imparare a tentativi come neutralizzarla. Un sistema di simulazione come può prevedere, ancorché su base quantistica, posizione, struttura e costruzione di un ordigno? Andando a pescare nell’infinatamente probabile?

Il terzo problema arriva quando l’azione si sposta fuori dal treno. Come è possibile che dalle memorie e/o da un modello matematico del percorso del treno si possano ricostruire le azioni di persone che erano fuori dal treno? E ancora, dato che l’attentato ha luogo dopo la stazione, da dove vengono i dati che consentono di ricostruire la zona circostante? Dalle telecamere di sorveglianza? Da immagini satellitari? Tutto il plot è motivato dal dover impedire un attentato con una bomba atomica. Che non sanno dove sia, chi ce l’abbia e dove abbia intenzione di farla detonare.

Da qui discende il quarto problema, la plausibilità delle azioni che si svolgono nel parcheggio, compreso il confronto con l’attentatore e i vari drammi che ne discendono. Stesse obiezioni del punto precedente, con l’aggravante di come possa essere possibile rappresentare la bomba atomica o le intenzioni dell’attentatore. Sono belle sequenze, per carità, ma non stanno in piedi dal punto di vista logico.

Il quinto problema stride di brutto con il concetto di realtà. Stevens telefona al padre, che lo crede morto in guerra qualche mese prima. Quello vero, non la simulazione. Passando dall’universo simulato a quello che conosciamo grazie a una connessione inspiegabile. Ditemi che gestore hanno di telefonia mobile da quelle parti, vi prego! Varrebbe la pena pagare tariffe astronomiche per avere un servizio del genere.

Infine, la conclusione. Un simil-happy ending che mi ha fatto piacere vedere, malgrado la sua totale implausibilità. De facto si postula che sia possibile trasferire la propria coscienza in un altro universo, uno degli infiniti probabili resi accessibili dalla teconologia usata in tutto il film. Capisco e apprezzo il concetto di voler concludere in maniera serena un film molto teso ma francamente mi sfugge come non possa risultare strano allo spettatore questo finale.

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